Guillaume Bertand de Durfort è un’altra delle figure di rilievo della battaglia di Campaldino. I principali cronisti dell’epoca, Giovanni Villani e Dino Compagni, ci riportano che il conte francese di Artois fosse giunto in Italia come “balio”(tutore militare) e consigliere di Aymeric de Narbonne, come quest’ultimo al servizio del re di Napoli Carlo II d’Angiò, alla guida dell’esercito guelfo che si stava raccogliendo per lo scontro campale contro le armate ghibelline.
Nonostante ciò, sono scarse le fonti che ci parlano di lui; gli stessi Villani e Compagni non ci forniscono informazioni sulla sua data di nascita, mentre ci riportano chiaramente quella di morte: infatti, a differenza del suo protetto Aymeric, che sopravvisse e tornò a Firenze tra il tripudio popolare, Guillaume perse la vita durante la battaglia, in quel fatidico sabato 11 giugno 1289. “Assai pregio v’ebbe il balio del capitano, e fuvi morto”[1], scrive Compagni, dando un’esplicita testimonianza del suo valore di combattente. Riccardo Nencini, nel romanzo storico “La Battaglia”, descrive in maniera suggestiva la sua morte: “Poco dopo la stessa sorte avvolse Guillaume de Durfort”, ferito in pieno volto da un verrettone (un proiettile a punta metallica, Ndr)…. Pensai all’istante che fosse stato disarcionato nella mischia, poi, quando la sopraveste dipinta d’azzurro e ricamata a gigli d’oro non riapparve alla mia vista, compresi. Aveva difeso con la vita il corpo del suo signore, come gli era stato ordinato da Carlo lo Zoppo”[2].
Sempre Nencini tratteggia alcune suggestioni della personalità di Guillaume e del suo rapporto con Aymeric: durante il cammino attraverso la Consuma, prima di arrivare in Casentino, quando il suo protetto è assalito da dubbi e inquietudini, Guillaume risponde senza esitazione “Sire, a noi non è consentito dubitare. Dobbiamo al re fedeltà e obbedienza, e questo deve bastarci”. E ancora: “La vostra guida dovrà dunque essere autorevole e decisa per sedare sul nascere ogni malinteso”. E comunque non temete. Io sarò al vostro fianco.[3] Per quanto romanzate, queste parole possono essere molto vicine alla realtà condivisa dai due condottieri francesi: sembrerebbe infatti che Guillaume avesse incluso Aymeric nel testamento redatto prima della partenza per Campaldino. Il resto dei suoi beni, armi e vestiti inclusi, sarebbe invece stato lasciato all’Ordine dei Servi di Maria, tanto che Guillaume venne sepolto nel chiostro “grande” (o “dei morti”) basilica della SS.Annunziata, uno dei più importanti santuari mariani di Firenze.
In uno dei siti che raccontano la storia della SS.Annunziata viene fatta chiaramente menzione di questo legame fra il condottiero, i Servi di Maria e gli ideali guelfi di Campaldino: “ I fiorentini fecero dei funerali solenni al guerriero francese morto per la loro città, e i Servi di Maria vennero da Lucca, da Pistoia, da Siena per pregare sulla sua tomba. A Campaldino, insieme a Dante, a Vieri dei Cerchi, a Corso Donati, a Guglielmo di Durfort, ad Amerigo di Narbona, almeno una decina di frati Servi Maria combatterono per la libertà e il predominio di Firenze in Toscana. Il codice Memorie dell’Annunziata ne nomina almeno cinque: Francesco Malognani, Ruggero da S. Frediano, Iacopo Rota, Benedetto Becchi, Pacifico; altri che li accompagnarono non sono ricordati”[4].
Il monumento del cavaliere di Durfort presenta il guerriero, rivestito di maglia di acciaio e corazza gigliata, mentre si lancia nella mischia roteando la spada. Il fiordaliso di Francia e il giglio di Firenze, ricordano l’amicizia dei due popoli.
Stupisce, data la posizione di comando che assunsero nella missione di Campaldino, che, sia per Aymeric de Narbonne che per Guillaume de Durfort, siano così ridotte le fonti, non solo sulla loro carriera militare, ma più in generale sulla loro vita: possiamo forse trovare una spiegazione nella nuova dinamica di combattimento delineatasi nel giugno di quel 1289; un far guerra incentrato su nuove energie di nuove classi sociali, degli artigiani e dei mercanti in primis, su un fronte comune determinato ad annientare il nemico, senza più traccia di ideali cavallereschi e figure gentili, come ben ci testimoniano le parole del guelfo Barone dei Mangiadori giunte fino a noi: “Signori, le guerre di Toscana si soglìano vincere per bene assalire; e non duravano, e pochi uomini vi moriano, ché non era in uso l’ucciderli. Ora è mutato modo…”[5]
Per approfondire:
[1] Dino Compagni, Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, pag.13; Giovanni Villani, Nuova Cronica, pag.217
[2] Riccardo Nencini, La Battaglia, Firenze, Edizioni Polistampa, 2002, pag.244
[3] Riccardo Nencini, La Battaglia, Firenze, Edizioni Polistampa, 2002, pag.88-89
[4] http://annunziata.xoom.it/chiostrogrande.html
[5] Dino Compagni, Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, pag.12
Sito personale di Mario Venturi www.parvimilites.it
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