Della Battaglia di Campaldino viene sempre raccontato l’antefatto, il casus belli, e soprattutto viene fatta una dettagliata cronaca dello scontro, descrivendo le varie strategie delle due fazioni. Quelle che spesso vengono tralasciate sono le conseguenze della sconfitta degli aretini. Uno dei motivi di questa “disattenzione” – se così si può dire – nasconde l’erronea considerazione che le conseguenze furono nefaste per Arezzo e che l’assoggettamento da parte di Firenze partì all’indomani della sconfitta. Ma allora quali furono le vere conseguenze della Battaglia di Campaldino? Innanzitutto furono politiche: lo scontro, come sappiamo, vedeva contrapposte due fazioni che si contendevano l’egemonia toscana, ovvero i Guelfi e i Ghibellini. Questi ultimi, a seguito della sconfitta, persero definitivamente il peso politico in terra di Toscana, lasciando spazio ai Guelfi. Di pari passo iniziò l’ascesa di Firenze a grande attore politico ed economico non solo della Regione, scavalcando città importanti come Siena e Pisa, ma anche dell’Europa del tempo, grazie anche alla spinta culturale di cui la città del giglio si faceva portatrice. Nonostante la vittoria, a Firenze non si placarono le lotte intestine. I Guelfi, infatti, si divisero in due fazioni contrapposte: i bianchi ed i neri. Con la vittoria di questi ultimi, molti rappresentanti della corrente opposta, fra cui il sommo poeta Dante, vennero cacciati dalla città.
Fino a qui le prime conseguenze dal punto di vista di Firenze. E Arezzo? Quali furono gli effetti della sconfitta per la città ghibellina? Lo riporta il cornista del tempo Dino Compagni che nel 1310 pubblicò la “Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi”. Nel capitolo 10 del Libro I scrive: “Tra i Fiorentini e gli Aretini pace non si fe’: ma i Fiorentini si tennono le castella aveano prese; cioé Castiglione, Laterina, Civitella, Rondine, e più altre castella; e alcuno se ne disfece”. Nei giorni successivi alla vittoria di Campaldino, Firenze concesse il nulla osta per far tornare i prigionieri aretini nella propria terra, anche se molti morirono in terra fiorentina e furono sepolti secondo la tradizione in un fazzoletto di terra chiamato “il Cantone di Arezzo”. Nello stesso tempo Amerigo di Narbona conquistò Bibbiena, distruggendole le proprie mura; Barone de’ Mangiadori, Podestà di Siena, fece rientro con i suoi nella città toscana ed assoggettò Lucignano posta lungo il tragitto del ritorno, insieme ad altri castelli senesi che erano finiti in mano ghibellina. Compagni nella “Cronica” scrive: “Dopo poco tempo i Fiorentini rimandorono gente d’arme a Arezo, e posonvi campo; e andoronvi due de’ Priori”. Conquistata Bibbiena, l’esercito di Firenze si mosse verso la città di Arezzo saccheggiando tutti i luoghi che attraversava: giunti alle mura di Arezzo, l’esercito pensava di trovare una città allo sbando, ma non fu così. Le donne, i giovani e i soldati scampati alla prigionia fecero resistenza. Il capo di questa estrema difesa, secondo la leggenda, fu una donna, Ippolita degli Azzi, la quale aveva giurato vendetta, dopo l’uccisione a Campaldino del marito: la difesa della città, al grido “vittoria o morte”, fu estenuante, ma vincente. Gli aretini, dalle mura, lanciarono tutto quello che avevano a disposizione – sassi, pece, legni contundenti e acqua bollente – riuscendo nell’intento: i fiorentini non riuscirono ad entrare e Arezzo fu salvata dal probabile saccheggio. Bisogna aspettare qualche anno, una cinquantina per l’esattezza, per vedere la perdita definitiva della libertà da parte di Arezzo. Sarà un condottiero, o meglio il signore della Città, Pier Saccone Tarlati, a vendere l’autonomia della città a Firenze.
Per approfondire:
Dino Compagni, “Cronaca delle cose occorrenti nei tempi suoi”.
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