La storia che vi vogliamo raccontare oggi vede come protagonista un pozzo. A primo impatto questa cosa potrebbe suonare strana. Di solito si racconta la storia di una via, di una piazza, di un palazzo, insomma, di cose grosse. Invece, come scoprirete, anche un semplice pozzo nella nostra città ha dietro una storia che merita di essere divulgata. Ci troviamo nella parte alta della città, più precisamente in via dell’Orto. Davanti all’ingresso della casa museo Francesco Petrarca è collocato un pozzo, conosciuto meglio con il nome di Pozzo di Tofano. Questo appellativo deriva dal nome del protagonista di una delle novelle raccontate dal poeta Giovanni Boccaccio all’interno del suo capolavoro, il “Decameron”. Tofano era un ricco aretino, oltremodo geloso della moglie ed accanito bevitore. La moglie, che si chiamava monna Ghita, insoddisfatta dal rapporto con il marito iniziò a tradirlo più volte sfruttando il suo vizio di bere. Capito l’inganno il marito una sera decise di mettere da parte il vino per aspettare la moglie e farle pagare il tradimento. Questa di ritorno dall’amante trovò la porta di casa sbarrata e nonostante le varie suppliche il marito non volle farla rientrare. La donna allora finse di gettarsi nel pozzo davanti a casa simulando la caduta lanciandovi una pietra. Tofano uscì quindi di casa per salvare la moglie che prontamente, appena il marito fu fuori, ne approfittò per sgattaiolare dentro richiudendo la porta e cominciando ad ingiuriare dalla finestra contro il marito. L’indomani, calmati gli animi, i due si riappacificarono, il marito promise di non essere più geloso e la moglie ebbe il permesso di compiere qualche uscita extraconiugale.
Non sappiamo se questa vicenda abbia qualche fondamento di verità o se il Boccaccio la inventò di sana pianta, possiamo solo immaginare che passando da Arezzo il poeta percorse quella via imbattendosi in questo pozzo medievale e la sua grande fantasia fece il resto.
Dal 1958, per volere della Brigata Aretina degli Amici dei Monumenti, sul muro del palazzo, tra il numero 15 ed il 17, è presente una targa che ricorda che quel pozzo è stato protagonista di una delle storie che compongono uno dei più grandi capolavori della letteratura italiana medievale.
Di seguito è riportato il testo integrale della novella.
Decameron, settima giornata, quarta novella.
Fu adunque già in Arezzo un ricco uomo, il quale fu Tofano nominato. A costui fu data per moglie una bellissima donna, il cui nome fu monna Ghita, della quale egli, senza saper perché, prestamente divenne geloso. Di che la donna avvedendosi prese sdegno, e più volte avendolo della cagione della sua gelosia addomandato, né egli alcuna avendone saputa assegnare, se non cotali generali e cattive, cadde nell’animo alla donna di farlo morire del male del quale senza cagione aveva paura. Ed essendosi avveduta che un giovane, secondo il suo giudicio molto da bene, la vagheggiava, discretamente con lui s’incominciò ad intendere. Ed essendo già tra lui e lei tanto le cose innanzi, che altro che dare effetto con opera alle parole non vi mancava, pensò la donna di trovare similmente modo a questo. E avendo già tra’ costumi cattivi del suo marito conosciuto lui dilettarsi di bere, non solamente gliele cominciò a commendare, ma artatamente a sollicitarlo a ciò molto spesso. E tanto ciò prese per uso, che, quasi ogni volta che a grado l’era, infino allo inebriarsi bevendo il conducea; e quando bene ebbro il vedea, messolo a dormire, primieramente col suo amante si ritrovò, e poi sicuramente più volte di ritrovarsi con lui continuò. E tanto di fidanza nella costui ebbrezza prese, che non solamente avea preso ardire di menarsi il suo amante in casa, ma ella talvolta gran parte della notte s’andava con lui a dimorare alla sua, la qual di quivi non era guari lontana. E in questa maniera la innamorata donna continuando, avvenne che il doloroso marito si venne accorgendo che ella, nel confortare lui a bere, non beveva però essa mai; di che egli prese sospetto non così fosse come era, cioè che la donna lui inebriasse per poter poi fare il piacer suo mentre egli addormentato fosse. E volendo di questo, se così fosse, far pruova, senza avere il dì bevuto, una sera tornò a casa mostrandosi il più ebbro uomo, e nel parlare e ne’ modi, che fosse mai; il che la donna credendo né estimando che più bere gli bisognasse a ben dormire, il mise prestamente a letto. E fatto ciò, secondo che alcuna volta era usata di fare, uscita di casa, alla casa del suo amante se n’andò, e quivi infino alla mezza notte dimorò. Tofano, come la donna non vi sentì, così si levò, e andatosene alla sua porta, quella serrò dentro e posesi alle finestre, acciò che tornare vedesse la donna e le facesse manifesto che egli si fosse accorto delle maniere sue; e tanto stette che la donna tornò. La quale, tornando a casa e trovandosi serrata di fuori, fu oltre modo dolente, e cominciò a tentare se per forza potesse l’uscio aprire. Il che poi che Tofano alquanto ebbe sofferto, disse: – Donna, tu ti fatichi invano, per ciò che qua entro non potrai tu entrare. Va, tornati là dove infino ad ora se’ stata, e abbi per certo che tu non ci tornerai mai, infino a tanto che io di questa cosa, in presenza de’ parenti tuoi e de’ vicini, te n’avrò fatto quello onore che ti si conviene. La donna lo ‘ncominciò a pregar per l’amor di Dio che piacer gli dovesse d’aprirle. per ciò che ella non veniva donde s’avvisava, ma da vegghiare con una sua vicina, per ciò che le notti eran grandi ed ella non le poteva dormir tutte, né sola in casa vegghiare. Li prieghi non giovavano nulla, per ciò che quella bestia era pur disposto a volere che tutti gli aretin sapessero la loro vergogna, laddove niun la sapeva. La donna, veggendo che il pregar non le valeva, ricorse al minacciare e disse: – Se tu non m’apri, io ti farò il più tristo uom che viva. A cui Tofano rispose: – E che mi potresti tu fare? La donna, alla quale Amore aveva già aguzzato co’ suoi consigli lo ‘ngegno, rispose: – Innanzi che io voglia sofferire la vergogna che tu mi vuoi fare ricevere a torto, io mi gitterò in questo pozzo che qui è vicino, nel quale poi essendo trovata morta, niuna persona sarà che creda che altri che tu, per ebbrezza, mi v’abbia gittata; e così o ti converrà fuggire e perdere ciò che tu hai ed essere in bando, o converrà che ti sia tagliata la testa, sì come a micidial di me che tu veramente sarai stato. Per queste parole niente si mosse Tofano dalla sua sciocca oppinione. Per la qual cosa la donna disse: – Or ecco, io non posso più sofferire questo tuo fastidio; Dio il ti perdoni; farai riporre questa mia rocca che io lascio qui. E questo detto, essendo la notte tanto oscura che appena si sarebbe potuto veder l’un l’altro per la via, se n’andò la donna verso il pozzo, e presa una grandissima pietra che a piè del pozzo era, gridando: – Iddio, perdonami, – la lasciò cadere entro nel pozzo. La pietra giugnendo nell’acqua fece un grandissimo romore; il quale come Tofano udì, credette fermamente che essa gittata vi si fosse; per che, presa la secchia con la fune, subitamente si gittò di casa per aiutarla, e corse al pozzo. La donna, che presso all’uscio della sua casa nascosa s’era, come il vide correre al pozzo, così ricoverò in casa e serrossi dentro e andossene alle finestre e cominciò a dire: – Egli si vuole inacquare quando altri il bee, non poscia la notte. – Tofano, udendo costei, si tenne scornato e tornossi all’uscio; e non potendovi entrare, le cominciò a dire che gli aprisse. Ella, lasciato stare il parlar piano come infino allora aveva fatto, quasi gridando cominciò a dire: – Alla croce di Dio, ubriaco fastidioso, tu non c’enterrai stanotte; io non posso più sofferire questi tuoi modi; egli convien che io faccia vedere ad ogn’uomo chi tu se’ e a che ora tu torni la notte a casa. Tofano d’altra parte crucciato le ‘ncominciò a dir villania e a gridare; di che i vicini, sentendo il romore, si levarono, e uomini e donne, e fecersi alle finestre e domandarono che ciò fosse. La donna cominciò piagnendo a dire: – Egli è questo reo uomo, il quale mi torna ebbro la sera a casa, o s’addormenta per le taverne e poscia torna a questa otta; di che io avendo lungamente sofferto e dettogli molto male e non giovandomi, non potendo più sofferire, ne gli ho voluta fare questa vergogna di serrarlo fuor di casa, per vedere se egli se ne ammenderà. Tofano bestia, d’altra parte, diceva come il fatto era stato, e minacciava forte. La donna co’ suoi vicini diceva: – Or vedete che uomo egli è! Che direste voi se io fossi nella via come è egli, ed egli fosse in casa come sono io? In fè di Dio che io dubito che voi non credeste che egli dicesse il vero. Ben potete a questo conoscere il senno suo. Egli dice appunto che io ho fatto ciò che io credo che egli abbia fatto egli. Egli mi credette spaventare col gittare non so che nel pozzo; ma or volesse Iddio che egli vi si fosse gittato da dovero e affogato, sì che il vino, il quale egli di soperchio ha bevuto, si fosse molto bene inacquato. I vicini, e gli uomini e le donne, cominciaro a riprender tutti Tofano, e a dar la colpa a lui e a dirgli villania di ciò che contro alla donna diceva; e in brieve tanto andò il romore di vicino in vicino, che egli pervenne infino a’ parenti della donna. Li quali venuti là, e udendo la cosa e da un vicino e da altro, presero Tofano e diedergli tante busse che tutto il ruppono. Poi, andati in casa, presero le cose della donna e con lei si ritornarono a casa loro, minacciando Tofano di peggio. Tofano, veggendosi mal parato, e che la sua gelosia l’aveva mal condotto, sì come quegli che tutto ‘l suo ben voleva alla donna, ebbe alcuni amici mezzani, e tanto procacciò che egli con buona pace riebbe la donna a casa sua alla quale promise di mai più non esser geloso; e oltre a ciò le diè licenza che ogni suo piacer facesse, ma sì saviamente, che egli non se ne avvedesse. E così, a modo del villan matto, dopo danno fe’ patto. E viva amore, e muoia soldo e tutta la brigata.
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